La città proibita

Gabriele Mainetti torna al PostMod per presentare il suo ultimo film

La città proibita

INTERVISTA A GABRIELE MAINETTI/LA CITTA’ PROIBITA.

“Il kung fu è una forma popolare universale e spontanea. Ma, attenzione, non parliamo del popolo legato
alla sua cultura (lingua, territorio, memoria) ma di quel popolo mondiale contemporaneo disancorato da
tutto, spiazzato, esiliato. Hong Kong, la colonia, parla agli ex colonizzati e agli immigrati di tutto il
mondo.” Serge Daney

 

Arriva Gabriele Mainetti al Postmod (6 aprile) e come un vento impetuoso porta in sala il racconto della
sua terza fatica da regista, d’amore e botte, di arti marziali, amatriciana e Mina, di vendette incrociate, tra
la Cina e l’Esquilino, dentro scatole (cinesi, appunto) che raccontano vite distanti spazialmente eppure
così vicine per percorsi, scelte, desideri e rinunce. Del resto, come insegna lo storico Eric Gobetti, “per
capire la storia occorre conoscere la geografia” e Piazza Vittorio è il mondo intero.

 

Mainetti è, fin da Jeeg Robot, ‘cuore e acciaio’: “Qualsiasi film di genere che si rispetti ha sempre dentro
una grande storia d’amore. In questo racconto c’è l’incontro tra due culture, il sentimento che ne può
scaturire e anche la messa in pratica di due modi diversi di fare cinema che mi rispecchiano.
Sono una persona divisa in tanti pezzi proprio per la mia storia personale. Ho sempre avuto delle esperienze altre.
Ho fatto la scuola americana, mia nonna è cresciuta nel Jersey, mia sorella vive da trent’anni a New York.
È come se pensassi in più modi anche se la mia radice profonda poi è quella romana e il cinema lo vivo e
lo sento così: è come se tendessi una mano verso quest’altra cultura e cercassi di portarla da noi. Ed ecco il
kung-fu pian e il dramma popolare nostrano”.
Un film che, al solito in Mainetti, punta su una ouverture coinvolgente e trascinante, per immergere subito
lo spettatore nell’immaginario: “È un modo di sedurre che sta nelle mie corde. Le scene d’azione sono un
punto centrale della mia poetica. E a certe critiche nostrane che storcono un po’ il naso vorrei ricordare
che il cinema nasce esattamente con l’azione. Quando penso a Griffith, a Keaton, a Chaplin, quelle gag
sono performance incredibili che creavano nello spettatore un’emozione. La prima esperienza è stata
quella di un treno che ti viene addosso. Chiaramente se ci si perde in una ripresa puramente ginnica, senza
una storia dentro, ci si annoia. Ma se invece si prova a fondere tutto questo insieme, come dice George
Miller, si ha una delle forme più alte di linguaggio cinematografico possibili”.

 

 

Seduti in sala Caligari, scopriamo ogni volta, ad ogni nuovo ospite, quanto aver dedicato uno spazio a
questo regista sia stata un’operazione azzeccata. Si inizia a parlare di Marco Giallini, protagonista del film
di Gabriele, e Gabriele finisce per parlare de L’odore della notte: “Marco lo conosco da quando sono
ragazzino e sono sempre stato affascinato dal suo mondo. Il suo mondo è pure, soprattutto, l’opera
seconda di Claudio. Mi trovai a parlare con una produttrice di una mediocrità assoluta che liquidò Caligari
dicendo che per lasciare un segno, un autore, deve aver girato molti film. Non potevo crederci.
Io le dissi, guarda, ci sono registi che hanno alle spalle dieci quindici titoli, e non hanno nulla di quello che c’è in un
solo film di Caligari. Lui era così immenso che bastava incontrare uno spezzone di un suo film per sentire
quanto cinema ci fosse dentro. Era immenso davvero, lo ribadisco. L’odore della notte ha determinato un
po’ il mio sguardo. Quando uscii dalla sala dopo la visione dissi ‘a regà, ma allora se po ffa’, si può fare
questa operazione di genere, funziona. Giallini è un corpo attoriale che appartiene a tutto questo, sognavo
di coinvolgerlo dopo che – va detto – si era pure prestato per un mio corto, Basette, in cui incarnava
Jigen, un personaggio dell’anime Lupin III”.

 

 

Parliamo di lei, di un’eroina femminile che sa bene che la vendetta non ti salva, ma che non si ferma per
questo e arriva fino in fondo. Interpretata da Yaxi Liu, stunt-double, che pratica arti marziali dall’età di
cinque anni: “Mei è una donna che ottiene quello che vuole. Il trittico di Park Chan-wook è stato
un’ispirazione, soprattutto gli ultimi due Oldboy e Lady vendetta. Il maschio di fronte alla vendetta ne è
prigioniero; la donna se vuole te la serve su un piatto freddo, in maniera incredibile. Poi è chiaro che sopra
ogni cosa c’è il cinema di Bruce Lee che ho visto migliaia di volte e che mi ha aiutato anche quando ero
ragazzino insicuro e mi immaginavo forte come lui e a casa me la prendevo cui cuscini del salotto.
Crescendo è stato naturale passare dai cartoni animati giapponesi al cinema hongkongese, al cappa e spada cavalleresco di Hang-Lee… Insomma è stato un lungo percorso personale dentro a un cinema che ho sempre sentito mio”.
La città proibita è anche un western movie? Forse, ma per Mainetti l’occasione è ghiotta per celebrare
Sergio Leone e togliersi dei sassolini dalle scarpe: “Dopo Jeeg Robot non è successo nulla. Il cinema di
azione italiano, “il genere”, che il mio primo film avrebbe potuto far ripartire, punto zero di una rinascita
di qualcosa che sapevamo fare bene e non sappiamo più fare, non ha avuto un seguito. Perché? Eppure
abbiamo avuto Fernando Di Leo, Lucio Fulci, Bava, Corbucci, Sollima, e il più grande di tutti, Sergio
Leone. Ha fatto un cinema che rimbalza ancora addosso a tutti noi. Questo film non sarebbe mai esistito,
io non sarei mai esistito, senza Sergio Leone. E pensiamo invece quanto la politica è andata contro questo
artista, l’uomo di sinistra più interessante che abbiamo avuto. Non ha mai parlato di politica in modo
frontale, ma facendo film di genere con al centro gli ultimi, quando invece in America al centro mettevano
i grandi, i miti. Prendiamo C’era una volta in America, il grande mito del gangster che vive quello a cui
tutti aspirano, l’american dream, deve essere punito; quello che conquisti in modo improprio ti deve far
morire male. Ma Noodles è molto altro, a lui anche quello che sta nel mezzo è negato: fregato dal suo
migliore amico, incapace di amare una donna se non con la violenza, va a letto presto per trent’anni per
poi scoprire che qualcun altro ha vissuto al suo posto. E nonostante tutto questo Leone è stato demolito.
Vi invito a recuperare su youtube una sua intervista al centro sperimentale di cinematografia e le domande
che fanno i ragazzi a Leone. Aggredito, definito misogino, maschilista, filo-americano, che guarda al
cinema solo in modo ludico… Una vergogna totale. E questo atteggiamento valeva allora e vale oggi. E ve
lo dico, ha rotto il cazzo!”

 

 

La città proibita dove tutto è permesso e niente è importante. E dove tutto è importante è niente e
permesso. Culture agli antipodi che si fronteggiano sapendo di dover cedere qualcosa l’una all’altra, per
fortuna oppure no, ricordando a questo nostro mondo che non esistono spazi chiusi e impermeabili, che la
contaminazione è arricchimento, che è inutile fare i dinosauri che si oppongono al cambiamento.
Altrimenti si rischia il ridicolo, si cade in contraddizione, si rimpiange un passato che non c’è mai stato.
Come l’Annibale di Marco Giallini che si sbatte per resistere “come facevano quelli di quel villaggio
francese che prendevano la pozione: Asterix e Obelix”. Peccato che gli invasori, quelli contro cui
resistere, erano proprio i romani.

 

Testo di Simone Rossi
Report fotografico di Eros Pacini

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